Pensa alle sorelle cristiane perseguitate: la storia di Ranya

Ranya Abd al-Masih: una speranza contro il male in Egitto

Ranya Abd al-Masih abitava con il marito e le tre figlie nel cuore del villaggio di Mina, nel governatorato egiziano di Menoufia, quando si aprì un capitolo terribile della sua vita. Aveva 39 anni, insegnava inglese al liceo di al-Minofiya, quando il 22 aprile 2020 svanì dal suo villaggio nel buio del mattino. Era una madre amorevole, una cristiana così profondamente devota da essere chiamata “serva di Dio”. Scomparve, strappata alla sua famiglia, alla sua vita e alla sua comunità.

La donna toccò con mano non solo la crudeltà dell’uomo ma anche la forza della speranza e dell’amore della sua famiglia, quella stessa forza che ha fatto rialzare un’intera comunità abbattendo il muro dell’indifferenza verso gli atti di violenza causati dall’odio verso le altre religioni.
 

Una conversione forzata

Il giorno della scomparsa la famiglia di Ranya sapeva che la donna non poteva essere svanita nel nulla e denunciò subito l’accaduto alla polizia locale con la speranza che la giustizia avrebbe fatto il suo corso riportandola a casa. Ma così non avvenne e, alcuni giorni dopo il rapimento, sui social media apparve un messaggio a suo nome: un video di un minuto la ritraeva con il velo islamico mentre dichiarava di essersi convertita all'Islam nove anni prima. Nel video la donna recitava anche la shahada (professione di fede islamica) chiedendo al marito e alla famiglia di smettere di cercarla.

I familiari non credettero ai contenuti del filmato. Il fratello, Remon, fu il primo a denunciare pubblicamente che Ranya non avrebbe mai potuto pronunciare quelle parole. Nel racconto erano infatti presenti troppe incongruenze e tante falsità, espresse con voce spezzata da una sofferenza non solo fisica.

«È stata sicuramente rapita e obbligata a fare quel video» dichiarò Remon.

Iniziò così, da parte dei familiari, un’estenuante lotta per ritrovarla, un susseguirsi doloroso di denunce e richieste di aiuto alle autorità che, però, non furono mai accolte. Le forze di polizia fecero in modo che il caso si trascinasse per mesi senza sviluppi significativi.

 

La “buona battaglia”

Al grido disperato della famiglia di Ranya si unì quello della diocesi locale, retta dal Vescovo copto ortodosso Binjiman, e quello dei sacerdoti di Menoufia. Questi ultimi divulgarono una dichiarazione chiedendo il rilascio della donna e tre settimane dopo, in mancanza di segnali significativi sul caso, minacciarono di ritirarsi dal Beit Al-Aila, un'iniziativa interreligiosa sostenuta dal governo.

La scomparsa di Ranya divenne l’emblema di ciò che le donne in Egitto rischiavano di subire e un’intera comunità si fece portavoce del loro grido d’aiuto; nel mese di giugno la tensione raggiunse il culmine. A Mina fu organizzato un pacifico sit-in di protesta, bruscamente interrotto dall’arresto e dal rilascio, dopo un giorno, di 15 partecipanti copti. La “buona battaglia” di una famiglia, di un’intera comunità, di una Chiesa era a un punto di svolta: stava rompendo il silenzio che avvolgeva la storia di Ranya.

 

Ranya simbolo di speranza

Il silenzio si interruppe il 15 luglio quando sui social network apparvero le foto di Ranya circondata dalla famiglia. Era tornata a casa!

Le immagini divennero virali: la donna finalmente abbracciava marito e figlie ma il suo sorriso celava un dolore immenso, frutto di abusi sessuali e psicologici. La sofferenza profonda, però, non ebbe la meglio sul coraggio di Ranya che ribadì di non essersi mai convertita all'Islam.  

Oggi a Ranya Abd al-Masih è imposto di non parlare dell’accaduto. La polizia vuole costringerla al silenzio ma la sua storia, seppur per breve tempo, ha incrinato il muro dell’indifferenza, ha scosso molte coscienze.

Ci si augura che le donne egiziane possano vivere al sicuro ed esercitare il proprio diritto alla libertà di pensiero, espressione e credo.

 

Cosa possiamo fare? 

Anche se vicende come quella di Ranya accadono a migliaia di chilometri da noi, ma non possiamo ignorarle. Sono tragedie che si verificano ogni giorno, sfuggendo troppo spesso all'attenzione dei media e del mondo. Donne innocenti, semplicemente perché cristiane, subiscono violenze atroci e discriminazioni inaccettabili. 

Per questo è importante diffondere la storia di Deborah e delle donne che come lei testimoniano la fede con la vita e altrettanto importante è contribuire concretamente per offrire loro una speranza, un rifugio e un aiuto vitale per proteggerle e dar loro conforto.